Nell’articolo precedente ho scritto che sto imparando la calligrafia giapponese. E da quando ho cominciato a impararla spesso rifletto su quest’arte. Ho letto anche un libro sulla calligrafia cinese.
Intanto vorrei sottolineare che la parola “calligrafia” non è la traduzione appropriata di Shodô, o Sho (“via della scrittura” o semplicemente “la scrittura”), le parole giapponesi che indicano questa arte e sono state sempre tradotte nelle lingue occidentali con “calligrafia giapponese”.
Come ho scritto un paio di mesi fa su un post di FaceBook, “Il fine ultimo della calligrafia è arrivare alla perfezione del tratto”. Ma Shodô non ha lo scopo di insegnare a scrivere "bene", di raggiungere la perfezione: è più libero, dà più importanza alla mente di chi scrive.
In Giappone spesso si trovano mostre dello Sho di uno o più artisti sia giapponesi che cinesi, sia moderni che antichi. Quando guardiamo le opere di qualche artista non guardiamo quanto sono belle o precise. Guardiamo lo stile: più forte o più sottile, più lineare o meno; guardiamo anche le sfumature dell’inchiostro e lo sfondo, a volte anche la carta. Ammiriamo l’opera in tutto il suo insieme, anche immaginando la persona, la sua mente, i suoi sentimenti mentre scriveva.
Per questo Shodô richiede concentrazione, ma non richiede un’attenzione per scrivere “bene” come qualcosa di ufficiale o formale. Anche quando scrivi una lettera a un’amico: scegli la carta, il pennello e le parole pensando a lui — questo è già “Shodô”.
“Scrivere” è un’azione che tutti fanno tutti i giorni. L’arte nella quotidianità. Forse è simile a Sadô (via del tè) che è l’arte nel bere il tè. Entrambe queste azioni di vita quotidiana si sono integrate con cose uniche nel mondo ma che vivono sempre nella vita quotidiana.